Storia

Silvano Girotto: il mitra sotto la tonaca

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Un ragazzino diciassettenne, cresciuto nel quartiere Mirafiori, marciava con la testa protetta dal suo kepi bianco sotto il sole bruciante d’Algeria.

Si chiamava Silvano Girotto, che da giovanissimo ladruncolo di periferia e figlio ribelle di un maresciallo dei Carabinieri. Era diventato un legionario francese dopo aver conosciuto le sbarre della “Generala”, carcere minorile conosciuto come Ferrante Aporti.

Durante gli anni ’50 del secolo scorso, la Legione Straniera aveva un bel po’ di lavoro da svolgere nelle vecchie colonie nordafricane.

L’FLN, l’esercito partigiano indipendentista, combatteva strenuamente contro l’esercito di Parigi che non voleva accettare il nuovo corso della storia e si aggrappava ai territori d’oltremare con armate e cocciutaggine.

Fu durante un interrogatorio che il giovane Silvano decise di tagliar la corda da quella guerra.

Non riuscì a sopportare gli strazi di un guerrigliero caduto prigioniero e torturato con perfide tecniche di annegamento.

Tornato a Torino però, fu riacciuffato dai guai e dalla madama che lo accusava di un furto d’auto.

Una finestra aperta del commissariato fu l’occasione per riprendersi la libertà che fu breve ed effimera. I francesi non gli perdonarono la diserzione e con mano sulla collottola, se lo portarono di nuovo nell’inferno algerino, questa volta non più da soldato ma da detenuto.

Per alcuni mesi terribili la nuova casa del ragazzo di Mirafiori fu un buco di tre metri per uno, dove fu gettato come una bestia cattiva. Dopo la liberazione dal gabbio dei disertori riabbracciò la famiglia e anche il gruppo d’amici d’infanzia, il classico brutto giro.

La banda della giovane mala pianificò una rapina ai danni di un tabaccaio, ma l’impresa criminale, improvvisata e maldestra, terminò con una corsa su un cellulare della polizia a sirene spiegate.

Questa volta era la prigione dei grandi, da sopportare per sette lunghi anni.

Ma dal sole a scacchi qualcosa di mistico e profondo scattò nell’anima turbolenta di quel disgrasià di Girotto.  La vocazione gli apparve e gli indirizzò la strada di Dio e della preghiera, tanto che il 10 ottobre1963 viene ordinato sacerdote con il nuovo e redento nome di Padre Leone.

Era però un fratello poco incline ai dogmi del Vaticano. Insofferente alle gerarchie tradizionali e che si avvicinò a linee di pensiero politicizzate ed eretiche rispetto alla linea ufficiale della Chiesa.

Quel prete era rosso, sovversivo, troppo vicino alla bestemmia marxista

In collisione coi superiori porporati, chiese ed ottenne la missione verso l’America Latina, cattolica e divisa da abissali divari sociali. E fu in Bolivia dove il missionario scrisse un nuovo capitolo della sua vita già fino ad allora esagitata e appassionata.

Il 21 agosto 1971, le strade di La Paz vennero invase dalle autoblindo e dagli anfibi dei militari, usciti dalle caserme per prendere il potere con un colpo di stato cruento.

Girotto si ritrovò nel mezzo di combattimenti e il suo passato legionario rigurgitò fuori.

Facendogli abbandonare la tonaca per imbracciare il mitra insieme alla resistenza armata dei campesinos contro le forze reazionarie del colonnello Hugo Banzer Suarez. Appoggiato dagli strateghi nell’ombra del “Plan Condor”, operazione americana su vasta scala per impedire l’avanzata delle sinistre nelle Americhe Meridionali.

Erano i giorni della clandestinità nelle file del MIR, il movimento comunista arroccato nella selva che ingaggiava lotta senza quartiere contrapponendosi ai tradizionali poteri latifondisti, agli squadroni della morte. Che come vampiri erano alla quotidiana ricerca di sangue fresco, agli artefici di quella che diverrà una narco-dittatura retta dalle tonnellate di droga da fiuto esportata come un prodotto tipico di lusso.

L’internazionale rossa che orchestrava le agitazioni sul territorio a sud del canale di Panama diede all’ex frate francescano la possibilità di addestramento speciale nei campi segreti dei Tupamaros uruguaiani, aiutati da agenti cubani, commessi viaggiatori della rivoluzione permanente.

La base logistica della guerriglia boliviana aveva sede a Santiago del Cile, governato allora dalla giunta filo sovietica di Salvador Allende.

E’ nella capitale dello stato sudamericano che Silvano, ora conosciuto con il nome di battaglia di compagno David, durante un’operazione di approvvigionamento di armi, venne a trovarsi di nuovo in mezzo ai guai.

Ecco, la capacità di andarsi a cacciare nei pasticci, fu sempre una caratteristica, uno stile di vita, che accompagnò per tutta la vita “Frate mitra”, soprannome donatogli dalla stampa italiana che cominciò ad interessarsi a questo strano figuro.

L’11 settembre 1973, Pinochet e la “junta” presero il potere, assediando con jet e carri armati il presidente Allende asserragliato con i fedelissimi nel Palacio de la Moneda, il palazzo presidenziale cileno.
In tutta questo caos, Girotto si fece bucare la pancia da una fucilata sparata da un ragazzino in divisa. Si trascinò fino all’ambasciata d’Italia, implorando asilo che gli fu dato.

Tornò in Patria, insieme alla sua compagna, prova senza appello del saio definitivamente appeso al chiodo.

Ma non soltanto il Terzo Mondo conosceva in quegli anni di guerra fredda tensioni e piombo.

Dalle lotte sociali sempre più accese, nacquero le Brigate Rosse o Partito Comunista Combattente, l’esercito clandestino che giocava alla rivoluzione. Ma in maniera dannatamente seria, lasciando sul campo una scia di morti e gambizzati. In cuor suo, frate Mitra si rese conto dell’impossibilità nell’applicare le dinamiche di lotta armata, inevitabili in paesi sottosviluppati come quelli dell’America Latina, nella nostra penisola.

Credeva che la situazione politica, sociale ed economica italiana fosse ben differente e che quindi non c’era giustificazione né ragione nell’imbracciare le armi contro uno stato che coi suoi grandi difetti e ombre era comunque d’assetto democratico e dal benessere abbastanza ampio.

Vedeva l’esperienza dei “compagni che sbagliano” un’inutile e crudele spirale di violenza e funerali.

Quando si avvicinò ai personaggi che architettavano la rivoluzione, prese la decisione di collaborare con i carabinieri del nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Scattò dunque l’operazione segreta. Ci furono tre incontri, in cui Girotto ebbe modo di conoscere i tre esponenti al vertice dell’organizzazione clandestina: Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mario Moretti.

I capi delle Brigate Rosse erano molto interessati ad arruolare quel personaggio carismatico, dalle idee politiche perfettamente in linea con le loro, e soprattutto con un pedigree da pistolero di razza.

Dalla testimonianza di Silvano Girotto emersero interessanti scambi di battute dei brigatisti durante quegli incontri di cospiratori: “Siamo così carichi di odio che le nostre pistole sparano da sole.” Disse una volta Mario Moretti, capo dell’ala più intransigente e militarista.

E Curcio aggiunse: “ Sì, però per il momento ci spariamo sui piedi, abbiamo bisogno di lui.

Da queste frasi si intuiva il ruolo che la cupola rossa avrebbe voluto assegnare alla recluta

I rivoluzionari erano sì dotati di spirito guerrigliero e di incrollabile fede nel marxismo banditesco, però le armi non le sapevano ancora usare. Dunque ipotizzarono una sorta di scuola terroristica con la cattedra “honoris causa” al Professor frate Mitra che avrebbe dovuto insegnare ai discepoli della Rivoluzione materie come botti & revolverate.

Non se ne fece niente

Prima del terzo meeting, quello decisivo, le Alfa truccate dei militari bloccarono Curcio e Franceschini, incatenandoli in data 8 settembre del 1974, a Pinerolo.

Ma questo è il Paese dalla storia misteriosa, e anche questo episodio della memoria nazionale presenta punti oscuri secondo la nostra buona tradizione del dopoguerra.

Si vocifera infatti, di strane forze occulte dietro ad un’inquietante telefonata che avvertiva del blitz il medico simpatizzante Enrico Levati il quale a sua volta, riuscì ad avvisare l’altro super-ricercato Mario Moretti.

Moretti diventò così il capo indiscusso dell’organizzazione e la sua linea di comando portò a campagne terroristiche eclatanti raggiungendo l’apice con il sequestro Moro.

Addirittura, nella sporca faccenda, si ipotizzò un coinvolgimento da parte di qualcuno del Ministero dell’interno. Unica istituzione ad essere stata informata dell’operazione dai carabinieri, lasciando intendere così una volontà deviata nel lasciare che la tensione continuasse il suo corso di destabilizzazione dello Stato.

Ma questa non è storia è solo ipotesi, perché senza prove, documenti e fatti obiettivi si è nel campo del forse e dei se.

Resta comunque l’affascinate storia di Silvano Girotto, ex giovane malfattore di Mirafiori, ex legionario, ex frate, ex guerrigliero, ex infiltrato. Un uomo da più volti la cui esperienza terrena è stata segnata dal rosario e dal calibro nove.

articolo a cura di Federico Mosso

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