13 febbraio 1983: incendio al Cinema Statuto, una lapide in ricordo

Da una decina d’anni, in Via Cibrario 16 c’è un piccolo supermercato con accanto una torrefazione, di quelle dove andare a bere il caffè.
Il condominio che ospita i due negozi è stato costruito negli anni Novanta, al posto delle macerie di quella che fu definita la più grande strage torinese del dopoguerra.
Si trovava lì, infatti, il Cinema Statuto, distrutto da un incendio più di trent’anni fa.
Era una domenica, la vigilia di San Valentino, e il cinema trasmetteva La Capra, con Gerard Depardieu.
Una tenda prese fuoco in sala durante lo spettacolo preserale e sessantaquattro persone restarono intrappolate.
Le uscite, infatti, non si aprivano dall’interno, alcuni restarono chiusi in uno sgabuzzino scambiato per via di fuga.
L’incidente suscitò enorme scalpore: il proprietario del cinema venne arrestato e processato, le famiglie risarcite.

Anche la dietrologia non si risparmiò.
L’incidente fu collegato alla fama di Torino come città della magia nera, cercando improbabili segnali nelle cifre legate alla tragedia.
In realtà, si trattò di una fatalità figlia degli Anni Ottanta, del loro ottimismo misto all’incoscienza: i materiali antincendio non erano contemplati.
Quello che più importa, quindi, è che la tragedia cambiò del tutto l’atteggiamento nei confronti delle norme di sicurezza in Italia.
Numerose piccole sale di proiezione in tutta la penisola, soprattutto quella di seconda visione, furono chiuse perché prive di ogni misura di sicurezza.
Ora, sul luogo della tragedia non resta nulla a ricordo, e dire che le mura delle città sono coperte da lapidi di ogni tipo .
Solo al fondo dell’isolato, in Largo Cibrario, è stata dedicata un’aiuola alle vittime, da cui più volte sono state rubate le piante.
Dovrebbe essere un luogo di riposo, un rifugio, invece è lasciata a se stessa, sporca, con la spazzatura che circonda la pietra con la data dell’incendio.
La targa commemorativa è piccola, discreta, forse anche per questo passa ingiustamente inosservata.
Il simbolo di un ricordo che, fin dalla fine del processo, si è trasformato in silenzio.
Giulia Ongaro