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1598: l’epidemia di peste colpisce Torino e il ducato Savoia

Da Simone Nale

Dicembre 16, 2020

dipinto di malati di peste a letto

Più di 420 anni fa la “Dama Nera” raggiugeva i territori del Ducato di Savoia. Verso la fine del Seicento, una delle più cruente epidemie mai registrate si abbatté sul Piemonte.

Torino era da poco più di trent’anni capitale del Ducato di Savoia.

Ma verso la fine del ‘500 il reame di Carlo Emanuele I si trovò a gestire una situazione che non si presentava da più di duecento anni.

Era il 1598 quando la peste, causata dal batterio “Yersinia Pestis” sconvolse il Ducato di Savoia e Torino

Proprio quando un neonato Tommaso Francesco di Savoia compiva due anni si registrarono i primi casi di peste all’interno dei domini sabaudi.

Studi dell’epoca tracciarono la provenienza del morbo, puntando il dito contro la Savoia.

Infatti, non è un caso che Torino si trovò presto nell’occhio del ciclone.

La capitale sabauda era il polo di congiunzione e di svolgimento di tutte le attività del ducato, ma non solo.

Era anche la sede amministrativa e politica del monarchia, così come fungeva da crocevia tra l’Italia e la Francia dei Borbone.

Una città fervente e piena di vita, purtroppo perfetta per lo sviluppo e la diffusione della malattia.

I primi casi di contagio si registrarono già a partire dall’inizio dell’anno, in alcune contee della Savoia.

Ma ormai la situazione era sfuggita di mano.

Non solo perché la Savoia era un punto di giunzione commerciale per l’Europa meridionale, ma soprattutto perché lo stesso Re Carlo Emanuele I era solito recarsi a Chambery per discutere il futuro del Ducato.

Il via vai di persone, mercanti e funzionari reali determinò così una rapida ed inesorabile diffusione del morbo.

Dipinto che raffigura la peste

Come primo provvedimento si bloccarono le frontiere tra le contee

Una misura necessaria, ma ovviamente di virologia al tempo non se ne sapeva praticamente niente.

Perciò l’unica opzione era quella di bloccare temporaneamente gli spostamenti tra le contee del Ducato, in modo da scongiurare la diffusione della malattia.

Di fatto, nell’aprile del 1598 il Magistrato alla Sanità vietò tutti i rapporti commerciali e non con Torino e tra i comuni e le aree dove era accertata la presenza della peste.

Questo provvedimento interessò principalmente tutti le comunità d’oltralpe.

Infatti l’origine dell’epidemia era stata riscontrata proprio nei dintorni di Chambery e per questo motivo si impose il divieto di entrare in contatto con le persone provenienti da quell’area.

I confini alpini erano sorvegliati da militari e sentinelle armate che vietavano il passaggio da e per la regione transalpina.

Ciò nonostante la transizione dai punti di “checkpoint” era possibile solo con il possesso di un certificato che accertasse la buona salute, una sorta di autocertificazione dell’epoca.

Nell’eventuale mancanza di questo documento, ai viaggiatori veniva imposto un periodo di circa 20 giorni di quarantena, in appositi ambienti costruiti in prossimità della frontiera.

Tuttavia nei mesi successivi la situazione peggiorò drasticamente.

Monatti 1600 Torino

Nel maggio del 1598 mentre la peste si diffondeva a Torino, il trattato di Vervins concluse la guerra franco-spagnola.

Un conflitto ne quale partecipò anche il Ducato di Savoia, in appoggio alla Francia di Enrico IV.

E che presto, con la sua conclusione, vide l’esodo dei soldati che ritornavano a casa attraverso i valichi alpini.

Una situazione all’apparenza ingestibile, soprattutto se contiamo il fatto che bisognava controllare un contingente di migliaia di militari.

In un primo momento si cercò di imporre una quarantena preventiva per poi scortare ogni singolo soldato al propri paese d’origine.

Ma i risultati non furono quelli sperati.

Nel giro di poche settimane la peste raggiunse anche Torino, mandando nel panico l’intera città.

Quadro dipinto di Torino nel 1600

I primi casi nella capitale sabauda si registrarono intorno al 13 settembre

Ricordiamo che al tempo la metropoli piemontese contava poco più di 20 mila abitanti, un niente a confronto con i 900mila di oggi.

Ma presto anche i confini della Torino dell’epoca vennero chiusi.

Come conseguenza, la famiglia Savoia si allontanò dalla città insieme a tutto il sistema governativo del Ducato.

E per i due anni successivi i reali si alternarono tra i castelli di Moncalieri, Fossano e Miraflores.

Mentre nella capitale la gente cominciava a morire per le strade.

La situazione era drammatica e presto il Gran Consiglio del Comune dovette cercare nuove soluzioni.

Il lazzaretto, ormai saturo di pazienti infetti, non era più disponibile.

Perciò si prese la decisione di costruire un sistema di abitazioni in legno dove ospitare i possibili contagiati durante l’isolamento.

Proprio in quei frangenti, i monatti svolsero un lavoro cruciale.

Già contagiati e guariti dalla malattia, il loro compito era quello di trasportare gli infetti, o i loro cadaveri, fuori e dentro il lazzaretto.

Si occupavano anche di raccogliere tutti gli averi e gli oggetti degli sfortunati per poi bruciarli oppure disinfettarli.

Come i soldi per esempio, i quali venivano conservati da funzionari della Banca Reale, per poi essere riconsegnati al proprietario o alla famiglia del defunto.

Il tutto per scongiurare l’ulteriore diffusione del contagio.

Eppure il lavoro del personale sanitario dell’epoca veniva generosamente retribuito.

Parliamo di cuochi, speziali, medici, chirurghi, becchini e soldati che mettevano a rischio la propria vita per il bene dei cittadini.

Quindi, per forza di cose, la ricompensa, nonostante fosse in natura, non poteva che essere cospicua.

Per esempio, ogni monatto riceveva rispettivamente una razione di cibo al giorno, che comprendeva:

  • tre micconi di pane
  • due pinte di vino
  • due libbre di carne
  • quattro uova fresche
  • quattro once di formaggio

Inizialmente le misure restrittive sembrarono funzionare.

Di fatto, verso la fine dell’anno i contagi diminuirono e il lazzaretto cominciava pian piano a svuotarsi.

L’epidemia sembrava debellata e presto si decise di tornare alla normalità.

Anche per limitare i danni della crisi economica che incombeva sul Ducato.

Ma fu un’incredibile errore di valutazione.

Raffigurazione dell'epidemia di peste

A distanza di pochi mesi, già nel 1599, la peste ritornò più violenta di prima.

Le morti aumentarono sproporzionatamente e nel luglio dello stesso anno si sfiorarono le duecento morti giornaliere.

Di fronte all’incompetenza degli addetti reali, Carlo Emanuele I prese in mano la situazione.

Era necessaria una maggiore chiarezza nei dati e negli accertamenti degli infetti.

Per questo motivo fu necessario aumentare il numero degli addetti sanitari, assumendo anche persone che ancora non risultavano immuni dalla malattia.

La sanità, infatti, pagò un caro prezzo.

Torino si svuotò in un attimo, diventando una landa deserta.

E i lazzaretti ormai incontrollabili arrivarono ad ospitare sia le persone contagiate che quelle sospette.

Il successivo provvedimento fu la totale purificazione della capitale sabauda

Per lo svolgimento di questo incarico si scelsero di nuovo i monatti.

I quali per settimane girarono ininterrottamente per tutte le vie della capitale, cospargendo acqua, spezie e profumi dappertutto.

Ricoprendo anche i muri e le pareti delle case con calce e vernice.

Una soluzione che al giorno d’oggi farebbe ridere, ma che in realtà portò i suoi risultati.

Uno dei metodi di verifica della disinfettazione dell’ambiente era quello di impiegare “le prove”.

Ovvero, volontari o monatti sani che dovevano vivere all’interno di un’abitazione per verificare la presenza o meno della peste al suo interno.

Se “la prova” si ammalava, allora la casa era ancora infetta, se invece sopravviveva allora l’abitazione era purificata dalla malattia.

Un metodo crudele, ma apparentemente l’unico possibile.

Alla fine la pandemia venne debellata (almeno fino alla seconda ondata del 1630)

Ma ora bisognava affrontare un altro problema.

Con le piccole attività commerciali chiuse da almeno due anni e le popolazioni meno abbienti in chiare difficoltà economiche.

Il Ducato era sull’orlo della recessione economica, ma bisognava prima aiutare i cittadini piuttosto che le tasche del governo.

Così il governo di Carlo Emanuele I aumentò necessariamente le imposte e i contributi pubblici.

Nel giro di qualche hanno la situazione tornò alla normalità e la macchina politica ed economica del Ducato di Savoia riprese i battenti.

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Simone Nale

Laureato in Scienze Umanistiche della Comunicazione all'Università di Torino. Appassionato di storia della televisione e nuovi media