Gianduja, il contadino “ubriacone” che ha fatto l’Italia

L’enciclopedia Treccani definisce Gianduja “contadino rozzo di modi, di lingua arguta e di cuore generoso”. Mentre su Wikipedia le sue caratteristiche principali sono “allegro e godereccio, incarna lo stereotipo piemontese del galantuomo coraggioso, assennato, incline al bene e fedele alla sua inseparabile compagna Giacometta”.
Dubitiamo che proprio tutti i piemontesi (quei pochi rimasti) siano come Gianduja, dei contadini rozzi di modi, con il naso rubicondo per il troppo vino. E soprattutto con una fidanzata di nome Giacometta che va in giro con “una larga veste scura con lunghe maniche, mezzi guanti, ampia sottana, scialle di pizzo, grembiule fiorato, in testa una cuffia, ornata da un gran pizzo ovale”.

Ma siamo più che sicuri che tutti i piemontesi e coloro che si trovano a passare per Torino nel periodo di Carnevale conoscano il prode Gianduja.
Prode a ragion veduta. Perchè, se è vero che persino il suo nome deriva dall’ambiente etilico (Gioan d’la doja, Giovanni del boccale) e che le sue origini campagnole (Callianetto, nell’astigiano) non lo rendono proprio il modello del perfetto eroe romantico, il suo carattere conquista tutti.
E’ gentile, ma sincero, la sua schiettezza perfino esasperata
E ciò che rappresentò per il popolo italiano ai tempi del Risorgimento fanno dell’umile maschera Gianduja una figura importante per l’unità nazionale.
Meno conosciuto del napoletano Pulcinella o del veneziano Pantalone, il burattino creato dai piemontesi Gioacchino Bellone, originario di Oja, frazione di Racconigi, e Giovanni Battista Sales, di Torino, divenne ben presto inviso alle autorità.
A causa dei suoi rimandi spesso polemici verso le alte cariche dell’epoca contenuti nei testi delle sue scenette.
I suoi due creatori, ebbri del successo suscitato tra il popolo, vennero prima arrestati a Genova, accusati di ingiuria al doge ed espulsi dalla città. Poi la stessa sorte toccò loro anche sotto la Mole, presi di mira dal reverendo Baudissone, custode della morale cittadina.
Quest’ultimo non solo li processò per lesa maestà nei confronti del fratello di Napoleone (si chiamava Gerolamo, come il primo nome dato al loro burattino, Gironi), ma li condannò a morte e rinchiuse nelle Torri Palatine.
Sales e Bellone riuscirono però a fuggire e rifugiarsi in un cascinale isolato a Callianetto, frazione di Castell’Alfero.
Qui scrissero un nuovo copione e fabbricarono il primo, vero Gianduja. Vestito con un giubbetto marrone, panciotto giallo, calzoni verdi corti, calze rosse, scarpe basse con fibbia d’ottone, parrucca con codino all’insù e la coccarda tricolore appuntata sul petto.
Da quel momento il bogianen conservatore e leale divenne un simbolo che il potere ufficiale non potè più ignorare.
Grazie alla sua diffusione sui giornali satirici del tempo, Gianduja influenzò realmente politici del calibro di Cavour, Mazzini e Massimo d’Azeglio, promuovendo un’Italia unita a discapito dei giochi di potere del Parlamento Subalpino.
Ai giorni nostri il sornione contadinotto e la sua bella Giacometta non combattono più contro il nostro sindaco o il presidente della Regione Piemonte.
Il loro compito è annunciare dalla loro carrozza il carnevale, portando per l’appunto gianduiotti, lecca lecca e gioia ai bambini e ai meno fortunati.
Un compito che forse non sarà costituzionalmente importante come quello originario, ma che, ancora una volta, è ciò che salverà l’Italia.
Marco Parella