Museo Egizio di Torino, una conquista tutta italiana

Il Museo Egizio è un’istituzione molto conosciuta, a Torino e non solo.
Ripercorrere semplicemente la storia del Museo Egizio non sarebbe che l’ennesimo riassunto di cronache ormai note ai più, e che nulla aggiungerebbe in termini di spunto a quanto si può reperire con facilità sul web o sui cataloghi.
Vogliamo però, in attesa di approfondire una notizia di questi giorni, relativa al famoso “papiro di Torino”, che commenteremo nelle prossime settimane, riprendere alcuni elementi del passato del Museo, per esaltarne le peculiarità, figlie di uno spirito che oggi è molto sopito: il desiderio di conoscere e stupire.
Desiderio non fine a se stesso, ma volto a stuzzicare la curiosità di conoscenza del pubblico (e non solo le volontà di grandeur dei sovrani del tempo).
Soprattutto un desiderio che nasce in Italia, cresce all’ombra della Francia, ma ri-valica le Alpi per conquistare il pubblico torinese (e non solo) sotto l’egida di casa Savoia.
Nonostante la storia sia nota, è utile ricordare come il primo padre della collezione sia stato Vitaliano Donati, scienziato a tutto tondo di origine padovana che lavorò a lungo come docente e come esploratore sotto la diretta gestione di Carlo Emanuele III.
Il re difatti prima gli affidò le cattedre di Botanica e Storia Naturale all’università di Torino, nonché la direzione dell’Orto Botanico (che divenne uno dei più completi al mondo proprio con il Donati come curatore), e successivamente gli affidò missioni scientifiche e commerciali in Egitto e nelle Indie Orientali.
Queste missioni ebbero un enorme ritorno in termini culturali e scientifici: i mandati esatti erano difatti l’acquisizione di reperti e dati relativi alla storia egizia (le prime mummie arrivarono infatti dopo il 1760) e lo studio delle pratiche agricole e minerarie in quei territori, il tutto per arricchire la documentazione scientifica dell’Università.
I primi oggetti riportati furono esposti al Palazzo della Regia Università, in via Po, ad intelligente dimostrazione della validità dell’istituzione.
Se per una quarantina d’anni la passione per l’Egitto fu primariamente accademica e regia, fu ai primi dell’Ottocento che esplose la “moda egizia” su larga scala.
All’indomani delle campagne napoleoniche difatti, Bernardino Drovetti, piemontese, aveva raccolto durante l’incarico consolare in Egitto sotto Napoleone una grande collezione archeologica.

Collezione che si arricchiva anche grazie ad uno speciale mandato affidatogli da Napoleone: raccogliere esempi delle opere egizie da mandare in Francia (sorte che accomunò molti missi francesi anche in Italia).
Drovetti non solo raccolse materiale per Napoleone, ma come detto si costruì una propria collezione che venne poi venduta (alcuni dicono per motivi economici, altri per salvarla da smembramenti) al Re di Sardegna nel 1824 per 400.000 lire.
Tale collezione affascinò anche Champollion, che dopo mesi di lavoro ne trasse la prima catalogazione, ancora una volta su commessa napoleonica.
L’ultimo e significativo apporto fu di Schiaparelli, ai primi del ‘900, che dopo una serie di scavi archeologici portò la collezione del museo a più di 30 000 pezzi.
A quasi 200 anni dalla prima organica catalogazione, il Museo conta ancora su questo cuore per fregiarsi di secondo istituto per importanza storica dopo il Museo del Cairo.
Tuttavia, oltre a mummie e papiri, il Museo Egizio conserva anche qualcosa di più importante: tracce di una curiositas insaziabile, che portava regnanti e studiosi a curare maniacalmente collezioni destinate a far conoscere, e a rendere di pubblica fruibilità, enormi patrimoni che allora erano “di un altro mondo” per la stragrande maggioranza delle persone.
Oggi, in un’era in cui l’Egitto e gli è tra le prime e più “semplici” mete turistiche (per costi e diffusione), e in cui i musei sono visitabili fisicamente e virtualmente, l’Egizio è (purtroppo) una delle poche istituzioni ancora in grado di continuare a sorprendere e di rinnovarsi, mantenendo lo stesso fascino per i visitatori di oggi che aveva due secoli or sono.
Semplicistico e generalista sarebbe ricordare come la citata curiositas sia ormai patrimonio di pochi.
Ci auguriamo allora che questo tesoro, grande per valore come e più della collezione, rimanga custodito dal Museo, per essere tramandato e divulgato.
V.