Mole24 Logo Mole24
Home » Storia » Clan dei catanesi, la Mafia in Piemonte – Parte 2

Clan dei catanesi, la Mafia in Piemonte – Parte 2

Da Alessandro Maldera

Gennaio 17, 2014

Il Clan dei catanesi, la Mafia in Piemonte

Leggi qui la prima parte dell’articolo del clan dei catanesi

Il Clan dei Catanesi vendeva l’eroina ai calabresi che provvedevano al dettaglio in strada.

Tra le famiglie venne tirato su un ponte sullo stretto fatto di scambi di know-how, di favori, di omicidi, di mercenari in prestito, di collaborazioni.

Richiami Prodotti Italia App

A dimostrazione di ciò ci fu il rapimento dell’industriale Paolo Alessio, gettato poi come tanti altri in qualche buca della Sila per mesi. In quell’occasione i calabresi pagarono il Clan dei Catanesi per il loro “supporto logistico”.

La torta era ricca e ben farcita; altri golosi tentarono di mangiarne fette, senza avere il permesso. 22 maggio 1976, la notte dell’algerino. Aissa Bouherraous, passaporto algerino, conosciuto come “Mustafà”, faceva il furbo.

Era un pappone che si muoveva nella zona di Porta Nuova, bazzicando i brutti locali vicino alla stazione, frequentati da prostitute, nottambuli viziosi, pendagli da forca. Si era alleato con un altro acerrimo nemico dei catanesi, Rosario Condorelli e suoi due gorilla usciti da un libro pulp, Giovanni Fichera “il corto” e Giovanni De Luca “il lungo”.

La guerra tra Condorelli e i boss della famiglia Miano, nome al vertice della cosca, andava avanti da un po’, i morti ammazzati erano già sedici.

Quella notte del ‘76, in due luoghi diversi, avvenne il regolamento di conti che voleva esser definitivo. In un locale di Via Principe Tommaso, Mustafà il pappone fu raggiunto da un proiettile alla nuca, mentre in via Santa Giulia Condorelli e De Luca finirono di vivere dopo essere caduti in un agguato.

Era la guerra per la supremazia detenuta con il bastone da Francesco “Ciccio” Miano, che dovette combattere ancora per il proprio predominio nel biennio ’80-81 quando la sua famiglia si scontrò con il nuovo esercito radunato sotto il comando di Giovanni “il corto” Fichera, alias “il tatuato”. Bilancio della sfida: venti cadaveri.

La cosca di Ciccio Miano era potente, rispettata e forse anche manovrata dalla terra d’origine. I metodi dei catanesi per il controllo del territorio erano crudeli. Due episodi fanno gelare il sangue.

Il primo risale al gennaio del 1982.

In sei, capeggiati da Roberto Miano, fratello di Ciccio, andarono a fare visita al decoratore Francesco de Stefano, colpevole probabilmente di un furto ai danni della famiglia. Lo picchiarono. Lo legarono con del fil di ferro. Spuntò una sega. Gli incisero le braccia, le gambe, lo seviziarono per lungo tempo. L’imbianchino era macellato.

Lo finirono pigiandogli un manico di scopa sulla gola, fino a fargli uscire la lingua. Il corpo verrà ritrovato tre anni dopo, seppellito in un sacco dell’immondizia su in collina, nei pressi del ristorante “Bastian Contrario”.

Clan dei catanesi, la Mafia in Piemonte - Parte 2

L’altro episodio, altrettanto macabro e dalle tinte dei più duri polizieschi americani, è più recente. Nel 2002 Toni Musumeci pesce piccolo ma dal notevole curriculum, venne ucciso a calci e pugni in una cantina a Moncalieri, in Corso Trieste.

Il corpo fu murato e ritrovato mummificato solo dopo tempo, e l’identità del massacrato è stata riconosciuta grazie al tatuaggio sul braccio.

L’epilogo del clan dei Miano ha una data ben precisa: 28 settembre 1984; e un nome: Salvatore Parisi, killer. In Lungo Dora Voghera Pasquale Carnazza, carrozziere, stava facendo benzina. Salvatore Parisi aveva ricevuto l’incarico di ammazzarlo. Parisi sparò, sparò, sparò.

La missione era quasi compiuta ma una volante che passava di lì per puro caso rovinò tutto; i poliziotti assistettero all’esecuzione e corsero ad acciuffare l’omicida che si gettò nella Dora. Ma fu solo un rapido tuffo quello di Salvatore, fradicio e ammanettato venne immediatamente interrogato.

E Parisi spifferò, parlò, raccontò tutto. Venne fuori un mondo malavitoso incredibile, da letteratura nera.

Le cosche mafiose che erano organizzate in famiglie, in “signorie” con il proprio territorio e i propri eserciti. Famiglie dei Santapaola, dei Cursoti, dei Greco, dei Corleonesi.

Come i signori rinascimentali anche i signori feudali mafiosi si univano in alleanze machiavelliche, e scendevano a farsi la guerra con inaudita ferocia, usando mercenari, assassini professionisti prezzolati, bande guerriere al soldo dei boss. Parisi era uno di loro, vantava ben 21 omicidi. Raccontò di essere un pendolare. Veniva chiamato e prendeva l’aereo per Torino, dove veniva ospitato per la notte.

Il Clan dei catanesi, la Mafia in Piemonte - Parte 2

Alla mattina gli veniva lasciata una fotografia e un nome. Faceva il suo lavoro e rientrava a Catania il giorno stesso, come un trasfertista di morte. Raccontò anche delle strade violente di Catania e di come si faceva la guerra da quelle parti.

Si muovevano in piccole squadre militari di tre elementi. Si procedeva così in strada: due sui marciapiedi opposti, il terzo in mezzo, le mani infilate sotto le giacche ad impugnare i calci delle pistole.

Chiunque del clan rivale incrociasse la strada ai killer si beccava piombo: sfida all’O.K. Corral alla sicula. Salvatore Parisi disse agli inquirenti di essere stanco, di non poterne più di quella vita, della sua paura quotidiana di cadere prima poi vittima lui stesso di un agguato.

E disse del suo rancore verso i suoi stessi boss, loro sì davvero ricchi e potenti, a fare la bella vita sulle spalle di soldati come lui, operai della mafia, che sgobbavano nella feccia e che rischiavano pelle e carcere a vita ogni maledetto giorno della loro vita. S’innescò così lo stesso meccanismo che fece crollare Cosa Nostra su vasta scala: il pentitismo.

Effetto domino. Gli arrestati si pentono e fanno i nomi di altri che vengono arrestati. In poco tempo tutta la gerarchia dei colonizzatori mafiosi trapiantati in Piemonte venne rasa al suolo. Anche i capi si pentirono, Ciccio Miano in testa. In carcere addirittura si infilerà nelle mutande un registratore datogli dai servizi segreti.

Con quel pacco curioso e indiscreto, rapì le involontarie confessioni di ‘ndranghetisti e mafiosi tra le celle del carcere, tra cui quella importantissima del boss calabrese Domenico Belfiore: “Per Caccia voi siciliani dovete dire grazie a noi calabresi.”

A proposito dell’attentato mortale contro l’inflessibile giudice Bruno Caccia, assassinato dalla ‘ndrangheta il 26 giugno 1983. A pari passo con il super processo contro i catanesi, una spirale di violenza fu scatenata per tentare con rabbia cieca di deviare il corso della giustizia. Caddero affiliati, amici di, parenti di pentiti. Come due dei sei fratelli Miano, sforacchiati solo perché colpevoli di legami di sangue con gli “infami” di Torino.

Il vuoto lasciato dal clan dei catanesi fu colmato subito.

I nuovi padroni della città sommersa, da un ventennio a questa parte, sono le cosche calabresi. Loro non si pentono, litigano poco, sanno fare gli affari con discrezione. La ‘ndrangheta è qua, sotto casa, anche se non si vede….

Federico Mosso

Alessandro Maldera Avatar

Alessandro Maldera

Giornalista, ha collaborato per molti anni con testate giornalistiche nazional e locali. Dal 2014 è il fondatore di mole24. Inoltre è docente di corsi di comunicazione web & marketing per enti e aziende