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La comunità cinese a Torino

Da Alessandro Maldera

Luglio 25, 2012

Chinatown a New York

Torino è una città famosa per l’integrazione.

Luogo che ha dimostra un importante livello di tutele giuridiche ed assistenziali verso le diverse ondate migratorie che hanno interessato il territorio.

In particolare, la provincia torinese è la prima in Italia per presenza di immigrati cinesi. Una comunità di oltre 4.000 unità solo nel capoluogo, oltre a nutrite rappresentanze a Barge e Bagnolo.

La presenza cinese nella nostra regione risale alla fine della Grande Guerra

Migliaia di asiatici erano stati reclutati dall’esercito francese per operazioni di sminamento e costruzione trincee e si spostarono, a fine conflitto, in Italia.

Il loro numero a Torino divenne significativo solo nell’ultimo ventennio dopo il 1920. Passarono da 828 persone nel 1990 alle quasi 4.100 attuali, di cui il 90% proviene dalla provincia sud-orientale di Zhejiang.

Nello specifico più dell’80% dei cinesi che vivono a Torino ha radici nel distretto di Yuhu, in cui il cognome più diffuso è Hu.  Mentre le statistiche indicano che circa il 48% sono donne ed il 30% minorenni.

Si tratta dunque di un’immigrazione di famiglie, non di singoli uomini che lavorano come nel caso di marocchini o albanesi.

Il luogo comune che vede queste comunità chiuse in se stesse e poco integrata con la realtà ospitante è in parte vero. E, anche se da noi non si può parlare di quartieri ghetto alla Chinatown (gli immigrati cinesi si sono dispersi territorialmente tra Borgo Dora, dove vive il 14,1% dei residenti, San Salvario, Borgo San Paolo e Barriera di Milano), l’unica modalità di contatto con i torinesi sembra essere quella economica-commerciale.

Infatti, a fronte di oltre 560 attività commerciali gestite da cinesi e sempre più orientate alla cultura occidentale a discapito di arredamenti e specialità tradizionali (il 37% lavora nel settore della ristorazione, più del 20% nel settore del commercio).

Ogni altra modalità di integrazione, infatti, rimane particolarmente difficile per la prima generazione di immigrati.

Lanterna rossa rossa su sfondo buio della sera

Il 90% lavora con connazionali e il network familiare e parentale è la vera ossatura portante:

Il lavoro come il tempo libero e la ritualità sono vissuti tutti all’interno della famiglia, nel cui ambito si utilizzano prevalentemente i dialetti locali e solo quando necessario il cinese ufficiale.

Conseguentemente, notiamo che un terzo degli immigrati cinesi di prima generazione non parla l’italiano . L’empasse linguistica è superata molto meglio da coloro che sono nati già in Italia, a detta di tutti alunni preparati, studiosi e bene educati.

Le iscrizioni all’Università e al Politecnico sono in continuo aumento e superano da tempo le 900 unità (città con la più alta percentuale di studenti universitari cinesi d’Italia).

E  grazie dell’istituto Confucio e del Centro Alti Studi sulla Cina, si moltiplicano i programmi di inserimento ed i corsi in lingua nei nostri atenei.

A livello religioso la comunità cinese è così divisa:

  • il 60% non si riconosce in nessuna religione organizzata.
  • il 31% si dichiara buddhista
  • l’8% cristiano

Questi dati non traggano in inganno, però. I cinesi-torinesi conservano tutta una serie di credenze, di feste, di ritualità tradizionali che da secoli connotano la religiosità cinese al di fuori di ogni affiliazione istituzionale a una religione o chiesa.

Marco Parella

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Alessandro Maldera

Giornalista, ha collaborato per molti anni con testate giornalistiche nazional e locali. Dal 2014 è il fondatore di mole24. Inoltre è docente di corsi di comunicazione web & marketing per enti e aziende