L’ultima esecuzione capitale di Torino
Da Alessandro Maldera
Aprile 26, 2013
Il 13 aprile 1864, a Torino, alle cinque del mattino, presso la stazione ferroviaria di Porta Susa su uno degli spalti demoliti della Cittadella, è accorsa una grande folla per assistere all’impiccagione di Carlo Savio, un rapinatore omicida di 23 anni.
Vi è anche uno studente monferrino di 22 anni, laureando in legge, Agostino Della Sala Spada.
Il futuro avvocato, profondamente colpito dal triste spettacolo di quella che sarà l’ultima esecuzione capitale di Torino, la descriverà più volte nei suoi scritti.
Il condannato Carlo Savio arriva su di un carro aperto e coperto da una tela nera, tirato da un misero cavallo e scortato dai carabinieri: è senza scarpe e porta candide calze bianche che, si dice, è stato lui a volere; pallido e semisvenuto è trascinato al patibolo mentre un prete gli fa baciare il Crocefisso.
Quando il boia appare tra le travi della forca, la folla mormora: “Pantoni! Pantoni!”.
Pietro Pantoni porta dei basettoni che gli danno un’aria aristocratica, assomiglia al politico Gioacchino Napoleone Pepoli (Bologna, 1825-1881).
Svolge il servizio d’ordine uno squadrone di cavalleria: al nervoso comando di “dietro front!”, i soldati, non obbligati ad assistere all’impiccagione, girano le spalle al patibolo.
Savio viene fatto salire su una scala a pioli appoggiata alla forca, il boia è in alto, su una seconda scala, molto più lunga, a fianco di quella del condannato.
Il sacerdote mormora un’ultima parola, il boia si china su Savio, gli mette il laccio al collo e, con una spinta, gli fa perdere l’appoggio ai pioli della scala. Il corpo lanciato nel vuoto è trattenuto dalla corda, il boia col piede cerca di rompergli l’osso del collo, ma questo resiste e allora il boia pesta, l’aiutante tira le gambe verso il basso, fino a quando il collo è spezzato.
“Che fatica ha fatto per morire!” commenta, in tono allegro, una sartina incosciente.
Si sente il fischio di una locomotiva a vapore, in partenza nella vicina stazione di Porta Susa: il treno, simbolo di progresso e di civiltà, contrasta con lo spettacolo primitivo della forca.
Poi è inseguito un borsaiolo, colto in flagrante di fronte al patibolo: la pena di morte, considerata deterrente, non gli ha impedito di rubare!
Appare, infine, la più oscurantista superstizione popolare: le numerose donnette che contano giri e mezzi giri del corpo penzolante dell’impiccato per ricavare i numeri da giocare al lotto.
La descrizione di Della Sala Spada si conclude con tutti questi elementi, emblematici della sterile e barbara efferatezza della pena di morte.
Milo Julini
Alessandro Maldera
Giornalista, ha collaborato per molti anni con testate giornalistiche nazional e locali. Dal 2014 è il fondatore di mole24. Inoltre è docente di corsi di comunicazione web & marketing per enti e aziende
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