Sei di Torino se…

Come vigili alfieri delle nostre radici, le parole ci precedono, ci annunciano e ci mostrano per quello che siamo. Non quelle degli altri, ma quelle usate per descrivere, comunicare e compiere qualunque azione.
Basta aprir bocca, e non c’è corso di dizione che tenga.
La nostra “e” larga, o la cadenza ascendente (“Ti piace la menta?”) si possono tornire fino alla perfezione; ma i modi di dire restano nel sangue, nel ritmo del pensiero ancora prima che in quello del discorso.
Ci hanno descritto su qualche dozzina di pagine Facebook, “Sei di Torino se…”.
Se fai questo, se credi quello, se ti comporti in quell’altro modo.
Ma soprattutto se dici, se affermi, se chiami così o cosà qualcosa. Come i plin, o i cri cri, o il San Simone.
Già solo a Reggio Emilia San Simone è un tipo simpatico, con l’aureola e con la tendenza a far miracoli.
Di sicuro non un liquore da prendere dopo cena.
Si, pare che lo si conosca solo noi, addirittura Wikipedia (a maggio 2012) non ha un articolo sul nostro ammazzacaffè per eccellenza.

Ma sono ancora numerosi i modi di dire per essere un torinese doc
Per non addentrarci, poi, nei misteri del “marocchino”: non ordinatelo in un bar fuori Torino.
Passerete per razzisti nella migliore delle ipotesi e per cannibali nella peggiore.
Anche i “cicles” li chiamiamo così solo noi – incredibile, eh?
Invece, per addentrarci nelle locuzioni, un piccolo manuale di dis-istruzione: fuori dai confini del fu Regno di Sardegna, evitate di dire “ho tagliato” intendendo “ho marinato la scuola”; idem il “sono stato segato” per indicare una qualunque bocciatura.

Più comprensibili, invece, il classico “la metà basta” per dire che una cosa è troppa, oppure chiamare “alloggio” un appartamento.
Imperscrutabile per qualunque non torinese, invece, la costruzione “fare che + infinito” (“farei che andare”, “farei che tornare”, “faccio che smettere”).
Mette in crisi qualunque italiano, poi, la frase “Ehi, com’è?”, per chiedere “Come va?” – ma il tutto è stato parzialmente sdoganato dallo Zoo di 105 con la gag de I Tamarri.
Umberto Mangiardi